Nelle ore lente della impietosa canicola di pianura quando nella casa il silenzio si faceva greve e inviolabile, Valeria si divertiva a catturare oscure e ronzanti mosche con un piccolo bicchiere e un bianchissimo mucchietto di zucchero.
Sua madre Ernestina aveva messo al mondo sette figlie.
- Eravamo sette sorelle, eravamo tutte belle...
In famiglia in verità i fratelli erano nove: sette sorelle e due piccoli orfani senza madre, figli di primo letto del padre.
La prima figlia era stata per Ernestina, giovane mezzadra senza dote, frutto di un amore improbabile preso a morsi in un ventoso pomeriggio estivo, tra i campi insieme al figlio del padrone, il bel Cesarino.
Aveva il cavallo Cesarino e denti mai visti, a Tina parevano perle. Non fu lui a volerla, ma lei se lo prese nell'aria squassata da minacciosa tempesta, sotto un cielo di temporale a strapiombo sul mondo.
Cesarina - così Tina battezzò con il sale delle lacrime la sua primogenita - venne alla luce accompagnata dalle oscure chiacchiere di chi tra stalle e bestemmie vedeva in quella bambina soltanto il segno di un'infame vergogna e nient'altro.
L'onta fu presto lavata lascinado il paese, i pioppi, il ponte di barche e le acque tormentate e tormentanti dell'amato fiume. Bastarono poche stagioni e i paesani si dimenticarono di Tina, perdutasi tra le case, i tram e la guerra in città.
L'ultimo atto di quella forzata espiazione, che rubò a Tina la fierezza della gioventù, fu sposare quel mezzo falegname e mezzo fannullone, vedovo e padre di due disgraziati figlioli.
Grezzo e primitivo come il legno che cercava di domare, con la pialla, Emilio le regalò una vita fatta di gioie e di dolori talmente incongruenti tra loro da portarla presto allo sfinimento. I pomeriggi in quell'enorme soffitta di Via Al Duomo passavano un tramonto dopo l'altro, mentre tra una canzone e una zuffolata, unproverbio paesano e una boccata di sigaro Emilio violentava le sue figlie - Eravamo sette sorelle, eravamo tutte belle - e spesso, urlando e imprecando, picchiava Tina senza motivo.
Lei, ancora bella, alta e con figura di matrona, lui piccolo, goffo e ignorante.
Le mosche nel bicchiere, i bruchi nella scatola da scarpe e un infinito amore di prato per le verdissime cavallette del parco: Valeria crebbe così, sognando fate di magiche lucciole e desiderando morire ogni volta che suo padre entrava nel suo letto.
La sua mamma morì quando lei aveva appena tredici anni, una frangia troppo lunga sulla disperata innocenza degli oCchi e gambe troppo secche per essere di ragazza.
L'orco delle sue favole morì vecchio e curvo, dimentico dei crimini commessi , per nulla turbato ed assistito dalle sue tante figlie. Valeria gli accese l'ultimo toscano sul letto di morte.
In quegli anni, qualche borgo e qualche urlante volo di rondini più in là.
Si chiamava Angelo ed era un bimbo bellissimo proprio come gli angeli del Duomo: occhi celesti e soffici riccioletti nero carbone, culminanti in un boccolo regale che gli incorniciava il capo: Sua madre Rosetta lo stringeva forte tra le braccia quando sotto i bombardamenti correva - veloce, veloce correva e correva - alle celle sotto il campanile della chiesa di Sant'Alessandro.
Rosa avena il suo Angioletto, un marito elettricista di nome FRancesco e come dote due laboriose mani di sarta.
Le giornate trascorrevano povere ma profumate di pulito nella casa del borgo, dove la vita sapeva di frugale dignità e di donne con aghi appoggiati alle labbra, mani danzanti tra fili di morbido cotone e sogni da fotoromanzo nel cuore.
Poi, alla fine di una giornata storta - quella mattina Rosa e Francesco avevano litigato - arrivò quella terribile ed agghiacciante ambasciata. La portarono due operai, ansimanti per la corsa disperata, che tra un fiato e l'altro dissero a Rosetta di Francesco ... il cuore ... l'ospedale...
Avevano litigato quella mattina e Rosa non seppe correre più veloce della morte per poter conservare, tra i ricordi a venire, la grazia di un ultimo saluto.
Quel suo fagottino di bimbo compiva sette anni ... un ometto ormai ... ormai l'uomo di casa.
Angelo crebbe così, con una madre dal sorriso spezzato ed il ricordo di un padre che un giorno non era più tornato dal lavoro. Di lui portava quegli occhi di cielo e la pasione per l'elettricità. A suo figlio, nato solo tredici anni dopo, Angelo mise nome Francesco, alla figlia invece Margherita, per l'amore che Valeria, qull'abile cacciatrice di mosche divenuta sua moglie, aveva per tutte le creature dei prati.
Rosetta lasciò il suo Angelo e i suoi due nipotini una rigida mattina d'inverno, colpita a sessantasette anni dal gelo di una paralisi. Il sghemba che non suggeriva pace, ma ancora raccontava tutta l'ingiusta fatica della precoce vedovanza e l'inconsolabile rimorso del suo cuore, affiorato con la morte sul volto e congelatosi livido sulle labbra.
Io la ricordo bene la mia unica nonna. Non mi insegnò la gioia nè la spensieratezza, ma devo a lei l'amore per la casa, per le lenzuola profumate e l'usanza di conservare ninnoli e vecchie fotografie in ordinate scatole e scatoline dentro ai cassetti. Ricordo il suo comò, che troneggiava nella penombra di un'austera camera da letto, addolcita dal color carta da zucchero del lucido copriletto con frange buone per il solletico.
Ci sono giorni in cui sento tutta la sofferenza che porto nelle mie radici di margherita, nessun vecchio saggio e due genitori troppo giovani per placare l'irrequieta passione della loro primavera, che troppo presto vide appassire promesse e speranze.
Altre volte invece sale dalla terra della mia anima come un vortice di vento indomito e crepitante di fresca pioggia, che mi racconta della forza con cui mia madre ha saputo portare vita tra le macerie del suo ventre. Mi attraversa all'improvviso il cuore un turbinare di nuvole bianche che nella loro corsa liberano brani di un cielo azzurro e luminoso che ancora oggi vedo sorridere nello sguardo di mio padre. E la terra nutrita mi restituisce linfa e senso.